Training Autogeno

L’origine e il cuore del Training Autogeno [1]

 

<I.H. Schultz è l’inventore del Training Autogeno.

Egli nasce nel 1884 a Gottingen, compie i propri studi a Losanna, Gottingen e Breslau.

Diventa medico internista, dedicandosi inizialmente alla dermatologia, ma rivolgendo ben presto i propri studi alla neurologia e alla nascente medicina psicosomatica.

Questo interesse sempre più spiccato per la vita psichica lo porta ad apprendere l’ipnosi e , successivamente, a sottoporsi a un trattamento psicoanalitico.

Queste due esperienze andranno a plasmare l’essenza di un metodo psicoterapico, che egli denominerà psicoterapia autogena o bionomica.

Nel corso della prima guerra mondiale, Schultz pubblica il suo primo lavoro di rilievo, il cui titolo ha un sapore programmatico: “il trattamento psichico dei malati (Die seelische Krankenbehandlung).

Il valore di quest’opera gli valse la nomina a Professore Straordinario presso l’Università di Jena e testimonia come il suo interesse fosse, fin dall’inizio, orientato a un sistema organico e completo di trattamento.

Il suo orizzonte fu sempre quello di un procedimento di psicoterapia e non di una semplice tecnica di rilassamento.

Già dal 1909 Schultz si occupò di stati modificati di coscienza e, specificamente della fisiologia degli stati di rilassamento. Osservazioni personali e rilievi sistematici su soggetti ipnotizzati gli consentirono di evidenziare un fenomeno che risulterà essenziale per il suo futuro Training Autogeno: il rilassamento si accompagna sempre a vissuti soggettivi di pesantezza e di calore negli arti.

Nel 1924 Schultz si trasferisce a Berlino, dove coltiva l’amicizia con Oskar Vogt, una relazione profonda sul piano personale e proficua su quello scientifico.

Il neurofisiologo Vogt si occupava da tempo di ipnosi; fra il 1893 e il 1900 aveva anche messo a punto un metodo frazionato di autoipnosi. Schultz si dichiarò sempre debitore nei confronti di questo metodo, dal quale mutuò l’idea di esercizi ripetuti (principio allenativo), da praticare per conto proprio (principio di autonomia).

Il 3 marzo 1926, parlando davanti alla Società di Medicina di Berlino, Schultz accenna per la prima volta a una tecnica psicoterapica fondata su “esercizi d’organo autogeni”.

L’anno successivo, riprendendo lo stesso tema, parla di “training razionalizzato autosuggestivo” e nel 1928 adotta per la prima volta il termine “training autogeno”.

Quattro anni più tardi (1932) pubblica la monografia “Training Autogeno-autodistensione concentrativa”, in cui presenta il proprio metodo.

Il training autogeno conosce una sua immediata e vasta diffusione; già nel 1951 Schultz stimava che circa quindicimila persone avessero appreso questa tecnica. Nel volgere di un paio di decenni il suo testo venne tradotto in sei lingue e conobbe quattordici edizioni. Il procedimento tecnico però rimase quello già esposto nel 1932.

Esso consiste in una serie di sei esercizi standard, che ripropongono per gradi successivi le modificazioni psicofisiologiche tipiche degli stati di rilassamento: pesantezza e calore nelle membra, normalizzazione del ritmo cardio-respiratorio, regolazione della circolazione periferica.

Il boom di popolarità investì prevalentemente questo “ciclo inferiore” del training autogeno, ma fin dal 1929 Schultz aveva prospettato anche un “ciclo superiore” che apre al confronto dell’Io con l’Inconscio.

Questo confronto è l’obiettivo di una convergenza impossibile fra conscio e inconscio; esso sta al centro della concezione Schultziana di psicoterapia autogena [2] e della sua fiducia nell’evoluzione bionomica dell’individuo.

L’interesse di Schultz per una psicologia dell’evoluzione personale e non soltanto per la cura della psicopatologia è testimoniato dal suo incontro con Freud.

Quando egli parlò del suo metodo al padre della psicoanalisi, Freud gli disse: “Lei non penserà mica di guarire con questa tecnica?!”, ed egli, molto modestamente rispose: “Certamente no; ritengo solo di aiutare le persone ad evolvere, così come fa il giardiniere quando scosta pietre e arbusti perché le piante possano crescere meglio”.

Questo aneddoto racchiude molta essenza della psicoterapia autogena, la quale intende ripristinare nell’individuo i principi bionomici (cioè aderenti alle leggi della vita) dell’evoluzione e favorire la maturazione della soggettività.

Per questa ragione, l’impegno più maturo di Schultz non fu dedicato a questioni di tecnica psicoterapica, ma all’approfondimento dei principi psicologici e psicodinamici su cui fondare una psicoterapia.

Negli anni della maturità consolidò un’impostazione dichiaratamente analitica della psicoterapia autogena, mai disgiunta dai meccanismi psicofisiologici su cui si regge sia la salute, sia la patologia.

Per Shultz l’organismo fu sempre “totalità unitaria” di psiche e soma, di conscio e inconscio, di funzioni dell’Io e di pulsioni biologiche.

Nel 1970 Schultz muore.

In quell’anno esce il terzo dei sei volumi di un’opera intitolata “Autogenic Psychoterapy”. Ai primi due aveva lavorato lui stesso, in collaborazione con Wolfgang Luthe; ma il terzo volume e quelli successivi sono opera solo di Luthe e segnano un viraggio deciso verso l’impostazione psicofisiologica. Nello stesso anno, però, il suo più stretto collaboratore, Heinrich Wallnofer, introduce la dizione di “training autogeno analitico” e ufficializza la vocazione analitica e psicodinamica della terapia autogena.

Il rigoroso rimando ai meccanismi psicofisiologici e l’impronta analitica costituiscono il duplice, inscindibile cuore della psicoterapia autogena di Schultz.

Essa venne coltivata, insegnata e tramandata dagli Allievi più fedeli alla sua visione bionomica del vivente e alla sua concezione autogena dei meccanismi che regolano l’unità biopsichica. Fra essi, H. Wallnofer fu il continuatore più attivo e il custode più rigoroso del pensiero di Schultz.>

 

La tecnica originaria è stata tramandata fino a oggi grazie alla formazione garantita da alcune scuole presenti in Europa e nello specifico anche in Italia [3] .

L’approccio proposto in questo sito rispecchia con grande convinzione l’atteggiamento di base esplicitato sopra: l’unione psiche-soma, l’unicità dell’individuo, l’utilizzo del T.A. sia nella clinica che nell’ambito della psicologia del benessere e la possibilità di apprendimento del Training Autogeno con l’intento di Vivere con più consapevolezza e libertà la propria esistenza.

I vissuti emergenti con una costante pratica del T.A. sembrano aprire una strada maestra verso l’inconscio, un po’ come Freud sosteneva facessero i sogni.

Grazie al Training autogeno è possibile ritornare a sognare e si parla non solo di sogni notturni, ma anche di quei sogni che sono alla base dei progetti che costituiscono il motore della nostra Vita.

 

 

         

L’uso terapeutico del Training Autogeno

       

Il training autogeno per molti versi ha diversi punti di congiunzione con le pratiche meditative orientali [1] . In oriente ma anche in ospedali americani [2] vengono utilizzate queste pratiche sia per i pazienti ricoverati che per il personale sanitario. Queste tecniche, tra cui il Training autogeno, vengono ampiamente utilizzate anche in Italia in ambito clinico sia pubblico che privato.

Ad esempio nel settore oncologico per rinforzare il sistema immunitario in un periodo critico della vita del paziente e per fornire al contempo un adeguato supporto psicologico, o per la psicoprofilassi al parto per favorire una migliore gestione sia fisica che psichica in uno speciale momento della vita della madre e del futuro nascituro.

Il T.A. viene sempre più inserito anche in ambito della psicologia del benessere pur non abbandonando i presupposti teorici schulziani e quindi terapeutici che vi sono alla base.

<Relativamente ai collegamenti del T.A. con le discipline orientali, esistono sorprendenti somiglianze tra le concezioni di base che si trovano ad es. nel Buddismo zen e le regole generali che Schultz ha enunciato. Il denominatore in comune è senz’altro rappresentato dal concetto “dell’agire attraverso il non agire” che è in sostanza identico al concetto “del lasciare accadere” del Training Autogeno.

Questo concetto è strettamente collegato a quello di “autogenicità” da cui T. autogeno.

Autogeno è ciò che viene da Sé, ciò che si è elaborato da Sé. Solo quando questo principio viene rispettato si può parlare di vero Training Autogeno che permette all’uomo di ritrovare se stesso.

Si tratta di un metodo neutrale, esente da ideologia tanto che l’autogenicità ha come scopo che l’uomo impari a condursi da sé senza aiuto esterno (tranne in fase di apprendimento ove comunque viene sempre salvaguardata l’autonomia e l’unicità dell’individuo).

Si parte dall’idea che il paziente da solo e con il proprio lavoro (training) riesca ad influenzare i propri sentimenti, a sentire più profondamente, laddove a causa di disturbi provenienti dall’inconscio, non gli era possibile o, fino ad ora, gli era possibile solo poco; che egli riesca ad evitare irritazioni o agitazioni assurde e arrivi invece a realizzare un utile equilibrio tra tensione e rilassamento.> [3]

Il presupposto da cui partono le tecniche di meditazione è la consapevolezza. La meditazione e anche il T.A. non consistono a rendere la mente vuota, ma piuttosto nell’imparare a vedere le cose per quello che sono. La percezione del vuoto è anche quella dell’interdipendenza tra le cose, della relazione costante tra psiche e soma (mente e corpo). Il raggiungimento dello stato di calma è il fine ultimo per il T.A. e si tratta di un passaggio dalla frenesia quotidiana del “fare” allo sguardo introspettivo dell’essere. Quando la consapevolezza e la calma interiore si trasferiscono nel vivere quotidiano è possibile auspicare a vivere con saggezza. Una buona parte del lavoro consiste nell’imparare a sviluppare un certo grado di calma e stabilità della mente e ad imparare a vivere il momento presente pur mantenendo un collegamento con i ricordi del passato e la progettualità del futuro.

Per favorire l’aumento della consapevolezza il paziente è invitato a trascrivere i vissuti emergenti durante lo svolgimento del Training, utili anche per eventuali correzioni tecniche.

Colui che impara a lasciarsi andare nel training diviene calmo di conseguenza (come diceva Heyer, internista e psicoterapeuta).

Molto spesso è stato posto l’accento soprattutto sugli effetti distensivi che possono essere raggiunti mediante il T.A..

Ma è importante precisare che il Training Autogeno non serve solo alla distensione!

Infatti esso dopo un efficace distensione serve anche per ottenere eccitazione nel senso di carica vitale da utilizzare efficacemente nella quotidianità.

Ecco perché si rilevano tra gli effetti comportamentali anche un aumento della concentrazione e un portare in atto le proprie potenzialità potendo agire (nello stato di veglia) con maggior efficacia e creatività.

Il T.A. può, quindi, contribuire all’autosviluppo e all’autopotenziamento, senza alcuna suggestione esterna e senza un piano secondo il quale l’uomo debba svilupparsi. L’individuo è anzi portato a ritrovare se stesso con una rinnovata consapevolezza relativamente al proprio “cammino di vita”, una vita che inizierà a Vivere da Protagonista.

Ciò, come sottolinea Wallnofer, <è per l’uomo già una meta auspicabile, e sebbene la direzione dell’autorealizzazione dipenda anche dall’ambiente con cui l’individuo interagisce, a volte si verificano risultati sorprendenti.

Per la persona frenata sia dal suo ambiente esteriore che dalle tensioni interiori, la pratica del training autogeno equivale ad un’autentica liberazione.

Colui che diventa più calmo, non è certo più indifferente, o più povero di reazioni, può agire più liberamente e colui che può arrivare a questa calma, con l’aiuto di uno specialista (ma autogenamente!) sarà più sicuro di sé e comunicherà meglio con il suo ambiente.

Una tale sicurezza interiore, autoconquistata, non solo rende liberi da eventuali disturbi, e attutisce reazioni esagerate sia nell’area psichica che fisica (cosa che almeno in parte si potrebbe ottenere con ansiolitici ad es.) ma rende libera la via verso il “vero” uomo che c’è in noi> aprendo le porte al nostro Esser-ci nel mondo.

 

         

Training con il Trainer

 

Riprendendo le parole di Wallnofer [1] <per imparare il Training autogeno si ha bisogno di un Trainer esperto (psicologo o medico), specializzato nel Training Autogeno, che insegni gli esercizi, e non di un libro e neppure di un nastro registrato.

Come già Schultz, l’inventore di questa tecnica, sosteneva, spesso ciò che oggi viene in parte offerto come Training Autogeno non ha nulla in comune col metodo originario, all’infuori del nome. E allo stesso tempo egli ha sempre sottolineato che ciascuno deve trovare il proprio Training Autogeno, il proprio stile nell’usare l’immersione in Sé.

Il realizzare la passività attraverso il (progressivo) rilassamento muscolare, la commutazione in un altro stato di coscienza (quello di autogenia) in questa forma diretta è, rispetto al sistema nervoso vegetativo, un intervento molto più profondo rispetto a quanto si potesse aspettare originariamente.

Già solo questo fatto- soprattutto per i pazienti- rende indispensabile il controllo da parte dello specialista.

Ma Training Autogeno non significa soltanto imparare alcune formule con lo scopo del rilassamento!

Il suo successo o insuccesso sono strettamente connessi al modo in cui lo si apprende, lo si sperimenta e lo si vive.

Non c’è persona per la quale, nel corso dell’esercizio, non si verifichino sensazioni che rendano necessarie correzioni, modifiche, e/o spiegazioni da parte del Trainer.

Il colloquio, che il partecipante al corso conduce con lo specialista, riguarda tutto ciò che attiene al Training Autogeno, quindi anche gli effetti che nascono da questo.

Se il training viene effettuato in gruppo, egli viene a sentire anche il vissuto degli altri partecipanti e, attraverso questo, può fare le proprie riflessioni e sentire quelle del terapeuta, che potranno essergli utili anche in momenti successivi al corso.

Naturalmente molte cose avvengo soltanto nella sfera dell’inconscio e non del conscio e non per questo sono meno importanti, anzi, il paziente ben allenato può comunque avvertire dei cambiamenti profondi, dentro di Sé, sempre nella misura in cui egli sia pronto inconsciamente ad evolvere.

Non c’è corso di T.A. durante il quale non si possa osservare qualcosa di nuovo o di inaspettato e soprattutto di arricchente.

Spesso durante il T.A. appaiono dei vissuti anche sottoforma di immagini che emergono e necessitano di essere elaborati, permettendo di superare antiche paure, o raggiungere consapevolezza circa nostre potenzialità nascoste che possono essere portate all’atto.

Questo può avvenire proprio grazie al confronto con un terapeuta esperto.

Con alcuni pazienti si rende necessario cambiare qualche stimolo o dilazionarlo per evitare episodi sgradevoli, per questo è necessario un accurato monitoraggio durante la fase di apprendimento della tecnica.>

A prescindere dal fatto che da soli si impara soltanto una parte del training autogeno e non si esperisce la parte più importante, che è quella della comunicazione col Trainer e con gli altri partecipanti (se si è in terapia di gruppo), un training non controllato cela pericoli sia per coloro che desiderano curare aspetti clinicamente diagnosticabili, sia per coloro che desiderano aumentare il proprio personale benessere e potenzialità venendo a contatto con il proprio Io.

E’ importante anche sottolineare che il fine ultimo di un accurato e monitorato training iniziale è quello di rendere indipendente e autonomo il paziente nell’auto-somministrazione della tecnica, affinché egli possa avvalersi dei suoi benefici durante il corso e per tutta la Vita.

 

 

 

Gli effetti fisiologici delle pratiche meditative e del Training Autogeno in particolare:

 

 

 

a)      livello corticale:

 

·        il cervello è in generale stato di quiete;

 

·        sono presenti onde cerebrali tipiche del rilassamento (di tipo alfa e theta), simili a quelle del sonno profondo, il soggetto resta però in uno stato molto ricettivo rispetto agli stimoli esterni;

 

·        le onde cerebrali rilassanti persistono per un certo periodo dopo la fine della seduta.

 

b)      livello cardiovascolare:

 

·        diminuzione del ritmo cardiaco, come conseguenza della riduzione dell’attività nervosa, cerebrale e simpatica;

 

·        aumento del flusso sanguigno nei muscoli specialmente negli arti inferiori e superiori, verosimilmente per la riduzione delle resistenze vascolari periferiche (da qui la sensazione di calore nel T.A.);

 

·        abbassamento dell’ipertensione.

 

c)      livello metabolico:

 

·        il consumo di ossigeno da parte dell’organismo diminuisce mediamente del 20% con conseguente diminuzione del metabolismo e dei suoi prodotti finali.

 

d)      livello respiratorio:

 

·        la frequenza del ritmo respiratorio è all’incirca dimezzata rispetto a quella del soggetto a riposo;

 

·        parallelamente diminuisce la resistenza delle vie bronchiali al flusso dell’aria.

 

e)      livello cutaneo:

 

·        la resistenza della pelle aumenta: questo è un indicatore del rilassamento, laddove per contro la resistenza cutanea sotto stress diminuisce notevolmente.

 

f)        livello di chimica nel sangue:

 

·        regolazione degli ormone adrenalinici;

 

·        regolazione dei globuli rossi e bianchi;

 

·        diminuzione del colesterolo.

 

g)      livello muscolare:

 

·        diminuzione della tensione muscolare (da qui sensazione di pesantezza nel T.A.);

 

·        modificazione della temperatura corporea e conseguente miglioramento nella circolazione del flusso sanguigno (da qui sensazione di calore nel T.A.);

 

·        diminuzione del dolore.

 

 

 

 h)      sistema immunitario:

 

·        rafforzamento del sistema immunitario (laddove per contro lo stress favorisce un indebolimento della risposta immunitaria).

 

 

 

           


Gli effetti comportamentali generici delle tecniche meditative e del T.A.:

 

 

 

a)      aumento della calma, della tranquillità e conseguente diminuzione della tensione fisica e mentale;

 

b)      aumento della capacità individuale di gestire situazioni di stress;

 

c)      diminuzione dell’uso di farmaci. A questo proposito lo psicofisiologo J. Hoffman ha evidenziato come queste tecniche opportunamente praticate producano lo stesso effetto dei farmaci alfa e betabloccanti, usati nella cura dello stress (ad ogni modo queste tecniche non sono assolutamente da utilizzare come totali sostituti a cure farmacologiche in caso di bisogno ma bensì come coadiuvanti e acceleratori di un rinnovo di uno stato di benessere totale sotto la supervisione del terapeuta e del medico curante che dovrebbero collaborare per perseguire il benessere del paziente);

 

d)      miglioramento del rapporto con se stessi;

 

e)      miglioramento dell’attenzione e concentrazione;

 

f)        miglioramento delle relazioni interpersonali;

 

g)      miglioramenti ad hoc a seconda dell’interesse del paziente mediante opportune formule che possono essere create con il terapeuta per affrontare problemi come dipendenza da nicotina, problematiche gastro-intestinali, disturbi legati alla sfera del sonno,….

 

 

 

Fonte Pagliaro e Martino (2003); integrato da J.Lai.

 

 

 

           


Azione del Training Autogeno

 

 

 

sul Sistema Nervoso Centrale (S.N.C.) e sul Sistema Nervoso Periferico (S.N.P.):

 

 

 

azione sugli effetti dello stress.

 

 

 

<Il neurofisiologo Luthe osserva le ripercussioni della pratica del Training Autogeno di base a livello del Sistema Nervoso Centrale e Periferico sviluppando un metodo che si innesta sul T.A. di base: la neutralizzazione autogena.

 

Gli studi di Luthe (1970) sulla neutralizzazione autogena mossero dalla constatazione dell’ampia portata terapeutica del Training Autogeno. L’autore ha sperimentato come grazie alla pratica del T.A. si potessero conseguire dei risultati clinici in molti disturbi funzionali e non; la varietà di questi disturbi era tale che gli era difficile pensare che l’efficacia del metodo risiedesse nel contenuto tematico delle formule standard (pesantezza, calore, regolarità dei ritmi cardiorespiratori, fresco alla fronte). Egli formulò l’ipotesi che il Training Autogeno non agisca sulle aree cerebrali interessate dai molti disturbi trattati, ma che ponga il sistema neurovegetativo in condizione di attuare una spontanea opera di autoregolazione.

 

Osservando la molteplicità di lievi fenomeni collaterali che si verificano durante il ciclo inferiore, Luthe ipotizzò che essi fossero espressione del processo di autoregolazione del sistema neurovegetativo, che liberava autogenamente del “materiale neuronale accumulato”, responsabile di formazioni sintomatologiche disparate. Il rilascio di questo materiale neuronale darebbe origine alle scariche autogene, intese come “autentica modalità autocurativa del cervello”. Questa attività sarebbe il denominatore comune, che presiede al miglioramento di patologie disparate mediante il T.A..

 

Nel modello teorico di Luthe la prima ipotesi è che l’efficacia ampia del Training Autogeno rimandi non al contenuto tematico delle formule standard, ma alla varietà di fenomeni collaterali che le accompagnano.

 

La seconda ipotesi presuppone l’esistenza di un sistema centroencefalico “di scarica di sicurezza”.

 

Di questo egli non da una sufficiente descrizione in termini neuroanatomici e neurofisiologici, ma esso sarebbe responsabile del rilascio di materiale neuronale da entrambi gli emisferi cerebrali, da regioni sottocorticali e del tronco cerebrale. La varietà di strutture interessate corrisponde alla varietà fenomenologica delle scariche autogene.

 

Questo sistema centroencefalico provvede all’eliminazione del materiale di disturbo attraverso specifiche modalità che rendono la scarica autogena non particolarmente disturbante e comunque non dannosa per il soggetto.

 

Osservando una considerevole quantità di dati, Luthe constata che in nessun caso le scariche autogene raggiungono intensità insopportabili e che mai producono effetti nocivi per l’organismo, rispettando l’autonomia-autogenia dei processi diretti dal cervello.

 

La terza ipotesi, quindi, afferma che il sistema centroencefalico di scarica procede ad un rilascio selettivo di materia neuronale, informandosi a un “principio di saggezza biologica” immanente in ogni organismi vivente.

 

Il concetto di saggezza biologica dell’organismo, non è nuovo né in campo fisiologico, né in campo psicologico. I concetti di omeostasi e di bionomia, cari rispettivamente a Canon e a Schultz, si riferiscono entrambi alla capacità dell’organismo di porre in atto una serie di attività finalizzate al mantenimento o al ripristino di uno stato di equilibrio.

 

Esistono nell’organismo funzioni autoregolatrici, riconducibili ad un “sistema centroencefalico di scarica”, che operano a livello psicofisiologico e le cui manifestazioni possono essere sia psichiche che fisiche.

 

Tali funzioni si attivano in modo particolare nello stato di deconnessione autogena, grazie alle “mutate relazioni fra la corteccia e il diencefalo”. Le funzioni autoregolatrici procedono all’eliminazione di materiale neuronale di disturbo, accumulatosi a livello delle strutture nervose centrali in situazioni di stress. Questo termine viene assunto nell’accezione originaria di H.Selye come “stato di tensione acuta di un organismo che sia obbligato a mobilitare le sue difese”.

 

Le funzioni autoregolatrici non privilegiano nessun canale sensorio, hanno anzi manifestazioni caratteristicamente polisensoriali, e presentano un generale carattere di riduzione nel corso del tempo durante l’allenamento.

 

Le modalità scaricatorie interessano abitualmente aree cerebrali topograficamente circoscritte e ciò consente modalità di rilascio selettivo: il materiale neuronale d’accumulo non viene rilasciato integralmente, tutto in una volta, ma selettivamente.

 

Questo meccanismo sarebbe coerente con le esigenze di autoregolazione e consente di evitare fenomeni dolorosi o nocivi.> [1]

 

Mediante specifiche strumentazioni e studi psicofisiologici, neurologici e statistici è stato possibile valutare le modificazioni a livello di vissuti sia corporei che psichici presenti nella maggior parte dei soggetti sottoposti a Training Autogeno.

 

Recentemente studi sulla psicosomatica, psicooncologia, e soprattutto la psiconeuroendocrinoimmunologia (PNEI), evidenziano le azioni che le tecniche meditative orientali e occidentali (e il T.A. ha molto in comune con queste) hanno sul S.N., sul sistema immunitario e sul benessere totale dell’individuo.

 

<La PNEI è la branca della biologia che studia le relazioni tra sistema nervoso, sistema endocrino, sistema immunitario e stati mentali; si occupa quindi dell’influenza delle emozioni, degli eventi di vita e dei fattori psicologici sui processi normali e patologici dell’organismo. Varela (1997) propone un’analogia tra sistema nervoso e sistema immunitario, sottolineando che entrambi possiedono sistemi di autoregolazione (come sosteneva anche Luthe) e influenzano le risposte dell’organismo all’ambiente circostante. La PNEI analizza l’influenza del sistema neuroimmunitario, compresi i fattori psicologici e sociali che incidono su di esso, sull’insorgenza e sul decorso degli stati patologici dell’organismo (Biondi, 1977).

 

Gli organismi che compongono il sistema immunitario sono distribuiti in tutto il corpo e le cellule che lo costituiscono, i linfociti, circolano liberamente nel torrente ematico; esse quindi, possono essere differenziate attraverso i loro recettori. Molte delle sostanze riconosciute a livello recettoriale dalle cellule immunitarie sono ormoni e peptidi che, oltre a essere modulatori del comportamento, raggiungono concentrazioni elevate in seguito a stimolazioni fisiche stressanti (Pancheri, 1984).

 

Si ritiene che esse rappresentino il principale mediatore delle alterazioni osservate a carico del sistema immunitario in situazioni di stress e, più in generale, delle relazioni tra cervello e immunità.

 

Uno stress di origine emotiva attiva il sistema neuroendocrino generando un flusso di informazioni che influenza la funzionalità del sistema immunitario.

 

A sua volta, lo stimolo antigenico genera una reazione immunitaria che fa scattare il sistema di autoregolazione e, parallelamente, influenza il sistema neuroendocrino attraverso le linfochine, le chitochine e le limosine.

 

Questa serie di feedback dipende da un ritmo biologico regolato dalla ghiandola pineale in rapporto ad eventi ambientali e può essere desincronizzato da fattori stressanti (Lanfranchi, Pagliaro 2001).

 

In particolare la PNEI, enfatizza l’influenza degli atteggiamenti mentali sulle capacità di difesa del sistema immunitario e sul funzionamento del sistema cardiovascolare (Goleman, 1997).

 

Le endorfine e un vasto numero di neuropeptidi hanno il ruolo di mediatori, non solo delle informazioni ma anche delle emozioni e sono presenti in tutte le cellule del corpo (come evidenzia la neurofisiologa Pert, 1997).

 

La capacità di produrre neuropeptidi è sia del S.N. che del sistema endocrino e immunitario. I neuropeptidi vengono definiti “molecole psichiche” per la loro proprietà di veicolare non solo informazioni ormonali e metaboliche, ma anche “emozioni” e segnali psicofisici: per mezzo di essi viene trasmesso nel corpo ogni stato emotivo (amore, paura, piacere, dolore, ansia, ira), articolato in complesse sfumature che chiamiamo sentimenti. Inoltre viene rivista la distinzione tra neurotrasmettitori e ormoni, in quanto entrambi sono categorie di neuropeptidi rinvenuti insieme ai loro recettori in ogni parte dell’organismo, non unicamente nel sistema nervoso.

 

Questo significa che l’intero corpo “pensa”, ogni cellula “sente”, prova emozioni, riceve informazioni psicofisiche e le trasmette al resto dell’organismo attraverso una fitta rete di interconnessioni di estrema varietà comunicativa. Il cuore di questo centro di comunicazione presente a livello cerebrale è l’ipofisi: punto di congiunzione tra cervello e corpo, ghiandola che gestisce le emozioni di tutto il corpo modulando l’attività di tutte le altre ghiandole del corpo.> [2]

 

         

 

Indubbiamente sia questi studi più recenti che più remoti indicano un’azione delle pratiche meditative e del T.A. a livello del sistema nervoso autonomo e anche di quello centrale con ampi effetti terapeutici favorenti il benessere globale dell’individuo quando queste tecniche vengono praticate con costanza.

 

L’ottica di base è l’unione di psiche soma, in una visione Ippocratica ed olistica dell’essere umano.

 

 

 

 

 

 

 

 Dott.ssa Jessica Lai,psicologa psicoterapeuta, terapeuta di training autogeno Padova






 
Riferimenti bibliografici:

[1]   Fonte: Claudio Widmann (2005), analista junghiano, rappresentante autorevole del T.A. a livello europeo.

 

[2] Fonte: G. Pagliaro e E. Martino (2003), psicoterapeuti.

 

[1] Heinrich Wallnofer (2008), nato nel 1920, medico, psicoterapeuta; professore incaricato per la psicoterapia presso le Università di Vienna, Innsbruck e Friburgo, è socio onorario delle società per l’Ipnosi e il Training autogeno in Austria, Germania, Svezia, Italia e Giappone dopo essere stato per alcune il fondatore e/o il presidente. E’ inoltre Research Fellow della Komasawa University of Tokyo.

 

 



[1] Tecniche della tradizione birmana, buddismo zen, taoismo, la meditazione in movimento del Qigong. Fonte: Pagliaro, Martino, psicoterapeuti.

[2] Ad. es nella clinica situata all’interno del University of Massachusetts Medical Center.

[3] Fonte: Wallnofer (2008), nato nel 1920, medico, psicoterapeuta; professore incaricato per la psicoterapia presso le Università di Vienna, Innsbruck e Friburgo, è socio onorario delle società per l’Ipnosi e il Training autogeno in Austria, Germania, Svezia, Italia e Giappone dopo essere stato per alcune il fondatore e/o il presidente. E’ inoltre Research Fellow della Komasawa University of Tokyo.

 

 



[1] Racconto secondo le parole di Claudio Widmann (2005), analista junghiano, rappresentante autorevole del T.A. a livello europeo.

[2] Autogeno= ciò che viene da Sé.